ALIGI
SASSU - LA PITTURA COME ARDORE di
Paolo Levi Quello
degli anni Settanta è
stato un periodo magico per la
Torino della cultura. Regnava, fra l’altro incontestata,
la rivista Bolaffi Arte, le
cui copertine venivano dedicate solo ad artisti
di importanza internazionale, ed è stata questa la mia prima
occasione di incontro con Aligi Sassu.
Era ormai calvo, non alto di statura. Gli occhi nerissimi
sprizzavano intelligenza, ironia e concedevano continua attenzione
a chi gli stava dinnanzi. Aveva superato di poco i sessanta anni. Nel mio
caso, ero un giovane critico d’arte affascinato e coinvolto dalla sua
ricerca figurativa e dalla sua esperienza personale negli anni della
guerra e dalla sua partecipazione al Gruppo
di Corrente in Milano, con Renato Birolli, Renato Guttuso e Ernesto
Treccani, tutti non allineati ai canoni
del neoclassicismo imposto dal regime fascista per bocca di
Margherita Sarfatti. Da
tempo Sassu viveva assai poco
a Milano, molto a Palma de
Mallorca, nel piccolo paese di Pollensa, di
sole dodicimila
anime, dove poteva pensare e dipingere in pace. In
Italia non aveva più grandi
amici. Pittori come
Birolli o poeti come Salvatore
Quasimodo erano venuti tutti a
mancare. L’unica persona amica che gli era rimasta vicina era la moglie,
la soprano Helena Olivares, di
origine colombiana, che sovente sacrificava
la sua arte per lui. Ma i sacrifici, se così si potevano
chiamare, erano reciproci. Era
accaduto non poche volte che Aligi
Sassu non partecipasse all’inaugurazione di una propria mostra,
per poter accorrere a una prima teatrale della moglie. Ancora
oggi- mi diceva - sono
rammaricato di aver perso, nel 1971, la sua prima dell’Aida all’Arena
di Verona. Era
nato a Milano nel 1912. Comportarsi da ribelle gli era congenito e faceva
parte della sua anima sarda. Il suo cuore era sempre legato alla terra
paterna e al suo popolo composto da gente pensosa, chiusa, ma anche
scanzonata. Quel
giorno, negli uffici della casa editrice Bolaffi, è stato l’ inizio di
una piacevole e reciproca
conoscenza e in seguito di affetto:
la differenza di età non ha mai avuto peso nei nostri rapporti. Negli
anni seguenti l’ho seguito, fra l’altro, nella
realizzazione delle tavole dedicate alla
Divina Commedia, in
un’interpretazione suggestiva, fuori da ogni canone della tradizione
imposta dai grandi che lo avevano preceduto. Anche in questo caso,
si era voluto comportare da ribelle, per cui optò per un espressionismo
messaggero di inedite emozioni. L’edizione,
quanto mai lussuosa, andò presto esaurita e oggi è un pezzo di
antiquariato. Fece
altrettanto scalpore il ciclo di lavori dedicati al famoso racconto di Guy
de Maupassant La Maison Tellier. Anche in quel contesto, era rivoluzionario
il segno pittorico dalla cromaticità
ai confini del monocolore, mai
stancante a livello di tensione visionaria. È stato artista per
il quale manipolare la materia era diletto e stupore per
i risultati improvvisi e poetici che riusciva a ottenere. La
ceramica è stato uno dei suoi grandi
amori, figlia di una genialità creativa simile a quella del cubano
Wifredo Lam o dell’inglese
Graham Sutherland, che come lui frequentavano i laboratori
di Albisola, deliziosa cittadina ligure famosa per le sue fornaci a
disposizione di un’arte antica quanto nobile. Sono nati piatti ormai
rari sul mercato, ispirati alle sue celebri realizzazioni tematiche o a
motivi tipicamente sardi. È
ancora presente nella mia memoria il suo sguardo emozionato quel
giorno di febbraio del 1987
quando venne inaugurata nei saloni del Castello di Rivoli Museo d’Arte,
l’antologica voluta dalla
Regione Piemonte, come giusto riconoscimento della sua generosa donazione
della raccolta di disegni
eseguiti negli anni fra il 1937 e il 1938 a Fossano, dove era stato
incarcerato per antifascismo. Erano i ritratti a carboncino dei suoi
compagni di sventura, e volti di donne dietro le grate. Questa
antologica a Bellinzona di circa cinquanta opere, in occasione del
centenario della sua nascita, a livello di temi, è quanto mai esaustiva.
Ci sono tutti: campionature perfette ed emozionanti di un maestro che
dagli anni giovanili, sino in tarda età, ha sempre rappresentato, tramite
una espressività segnica e cromatica eccezionali il sogno e la realtà,
la cronaca e la storia, l’amore e la morte. Tutti temi lievitati come
per incanto nella sua immaginazione. Era un uomo libero: per questo motivo
sono nati dalle sue mani e da una mente senza pregiudizi opere fuori dal
tempo e dalla storia, creature mitiche, sfrenate
battaglie equestri, tematiche civili, i Concilii
e le tauromachie. Né possono essere dimenticati i capolavori di età
giovanile di taglio primitivo, i Caffè
e gli Uomini rossi, dove la realtà diventa mitologia. In ogni sua
raffigurazione, e anche nei lavori di carattere sacro, è il destino umano
sempre al centro dei suoi interessi. I
dipinti, cavalli scalpitanti, caffè, toreri e donne morbide,
permangono come nucleo fondamentale della sua ispirazione costantemente
fluida. Egli si è abbandonato all’intuito, con una naturalezza
illuminata da bagliori di sorprendenti intensità. Quando ha potuto
ottenere la prima critica
d’arte autorevole, che ha
approfondito appieno la straordinaria sperimentazione cromatica che non lo
avrebbe mai abbandonato, Aligi
Sassu aveva compiuto da poco i venti anni. “Questa pittura rossa di
Sassu è soltanto lo scherzo di un vetro colorato o l’autentica
ossessione d’una sensibilità ? Questo rosso incendiario ed amaro che
non canta, non squilla,
non scalda, ma brucia e
stupisce, è per noi qualcosa
di vivo, una nota
dell’anima, una ricerca di
profondità. E può essere tuttavia acerba nel grido,
ma quella voce portata tutta su quel fuoco,
in una totale tensione, è
qualcosa che vive”. Questa
la testimonianza che qui ho desiderato riportare è tratta da
un’illuminante analisi del 1932 di Raffaello Giolli,
importante critico d’arte che
fra le due guerre andava per la maggiore. Credo di non sbagliare a
scrivere che è stato il primo a notare quella scrittura pittorica fuori
dai canoni del gruppo di Novecento. Certamente quel passaggio prendeva in
considerazione il ciclo che, sin dalla sua nascita e per consuetudine, è
coralmente chiamato Uomini rossi
da critici, collezionisti, galleristi.
In verità, si tratta di una
definizione sulla quale, in questo contesto, cui
non ci si può soffermare superficialmente,
ma che ci obbliga a superare la facile etichetta, per
indagare la specificità di una pittura mirabolante, sinfonica,
dove sono proprio queste variabili tonali di rossi, questo espressionismo
pressoché monocromatico, a sottoporre pittore e osservatore a una
costante pressione emotiva. Il rosso di Sassu è la combustione di un’
anima inquieta che bene si specchia nella nostra coscienza
in un dialogo febbrile. Come ieri,
negli anni di sodalizio tra il Maestro e me,
giovane critico che lo stimava e ne era sedotto per il suo
coraggioso engagement, così oggi, che di lui rimangono queste accensioni
cromatiche inimitabili, mi
pongo il giustificato quesito di quale sia l’origine primaria,
misterica, di questo
rosso anti metafisico per
eccellenza. Sono composizioni che mi sembrano porgere la sorgente della
vita, quella che esce dal caos di Genesi,
il primo libro dell’Antico Testamento. È una pittura più
primigenia che primitiva, comportando
un’accensione spirituale fuori dal tempo e dalla storia. Riflettendo
sull’insieme magico di queste opere talentuose
presenti a Bellinzona, mi
è praticamente impossibile indagare,
spiegare e distinguere i vai processi della geniale creatività di
Aligi Sassu. È difficile portare alla conoscenza dell’osservatore i
vari distinguo dei suoi momenti creativi,
che mutano di volta in volta, che
palpitano all’interno di ogni quadro. Sono messaggi di amore per la vita
umana e per la sua storia laica, spirituale,
mitologica, letteraria.
Egli è stato prima di tutto un maestro dalle forti passioni morali. In
lui, pensiero e prassi non
erano mai disgiunti, così come era unitario il suo cammino di uomo e di
artista. Tutto in lui era un’unica sostanza ed era più vicino al
pensiero di Baruch Spinoza di quanto lui stesso potesse immaginare. È
quindi lampante che una smile
scelta esistenziale, come uomo
ed artista, necessitava,
sin dagli anni in cui giovanissimo aderì al movimento futurista di
Marinetti, di una scelta
poetica e morale ben precisa, che poi gli ha consentito di non rimanere
intrappolato lungo i binari autoritari dall’estetica neoclassica imposta
dal fascismo. Dall’epoca
giovanile sino alla vecchiaia, Sassu ha sempre tenuto conto della lezione
dei maestri del passato, dai Primitivi al Picasso dei periodi blu
e rosa, ma senza subire
influenze coercitive. È stato un pittore romantico, elegiaco, diretto,
incalzante; il suo linguaggio è stato quello dell’immaginazione,
dell’amore per la vita e della verità in pittura, dove l’uomo era
sempre al centro delle sue emozioni più profonde. |
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